HERMANN HESSE: UNO SCRITTORE PER ADOLESCENTI?
di Mario Rubino

Nel 1971 apparve negli Stati Uniti una striscia dei Peanuts di Schulz dove, nell'ultimo riquadro, il celeberrimo cane Snoopy (quel bracchetto sognatore che è in perenne crisi di competizione col “Barone Rosso” e che nella stesura del suo romanzo non riesce mai ad andare oltre il suggestivo attacco: «Era una notte buia e tempestosa…»), Snoopy dunque, deluso dalle facili letture d'intrattenimento, dall'alto del tettuccio del proprio canile, saggiamente proclamava: «Back to Hermann Hesse!». D'altronde erano gli anni in cui gli studenti contestatori di Berkeley, California, andavano alle manifestazioni contro la guerra in Viet-Nam, sfoggiando sui loro eskimo bottoni-gadget con la scritta: “I am Harry Haller” (il protagonista de Il lupo della steppa ) oppure “I am Siddharta”. Ma, ancora sedici anni dopo, nel 1987, il nostro Hugo Pratt pubblicava in ben cinque puntate sulla rivista “Corto Maltese” una storia a fumetti dal titolo Rosa alchemica, nella quale il noto e attraente avventuriero, figlio di una gitana andalusa e di un marinaio della Cornovaglia, l'idolo di tutte le teenager, Corto detto il Maltese, insomma, si reca appositamente a Montagnola in Svizzera per conoscere Hermann Hesse. Alla fine della storia l'autore de L'ultima estate di Klingsor, ben disegnato con i suoi occhialini tondi, le labbra sottili e le orecchie un po' a sventola, compare in prima persona e dice a Corto, da uno sbuffo di fumetto, che «lo pensava più vecchio», mentre il Maltese gli risponde che lui invece lo scrittore «se lo immaginava più giovane».

Ai moderni chiari di luna della lettura, fra cartoni animati giapponesi e videogiochi da computer, non sono certo molti gli scrittori che possono disinvoltamente far capolino, in citazione o in effigie, fra le strisce dei fumetti per i giovani. Hermann Hesse però non ha mai avuto problemi. Gli adolescenti lo conoscono bene e soprattutto lo amano, tanto quanto Vasco Rossi o Michael Jackson, Charlie Brown o, appunto, Corto Maltese.

Se Hermann Hesse fosse uno scrittore come Emilio Salgari o Giulio Verne, come Liala o Barbara Cartland, e nei suoi romanzi ci fossero soltanto avventure più o meno esotiche e amori più o meno infelici, ma poi a lieto fine, la cosa sarebbe chiusa lì e nessuno ne dibatterebbe, tanto si sa che l'adolescenza ha bisogno di fantasticare e di evadere. Ma il fatto è che nei suoi romanzi c'è sì esotismo, però per parlare dell'Om, della mistica indiana e della redenzione buddista; ci sono sì avventure e amori infelici, però sullo sfondo di un “Teatro magico”, in cui si discetta di Mozart e di Brahms, di Platone e di Goethe; c'è sì fantascienza, ma è quella della “provincia pedagogica” di Castalia, dove una élite di iniziati, nel XXII secolo, si esercita nel gioco delle perle di vetro, un misterioso sistema di segni derivati dalla matematica e dalla musica.

Eppure, di queste storie che procedono piane e senza grandi colpi di scena, a parte quelli interiori che balenano, specie sul finale, nell'animo dei protagonisti; di queste pacate narrazioni, che si distendono in una scrittura lineare, immediatamente intellegibile e all'apparenza molto elementare; dei libri di Hermann Hesse, insomma, se ne sono vendute in tutto il mondo alcune decine di milioni di copie, che fanno del loro autore lo scrittore tedesco non soltanto più famoso, ma soprattutto più letto in ogni Paese. Volendosi limitare ai dati editoriali italiani: Siddharta , nella Piccola Biblioteca Adelphi, ha già raggiunto 900.000 copie in 41 edizioni, e negli Oscar Mondadori sono state toccate le 235.000 copie de Il gioco delle perle di vetro , le 300.000 de Il lupo della steppa e le 400.000 di Narciso e Boccadoro . Questi dati riguardano beninteso le edizioni tascabili in commercio negli ultimi trent'anni circa. Ad essi bisogna quindi aggiungere le ulteriori decine di migliaia di copie vendute dai libri di Hesse in altre edizioni a partire dalle loro prime traduzioni negli anni Trenta e Quaranta: un successo che ha davvero assai pochi confronti.

Tanto successo di pubblico, tuttavia, per Hesse non è mai stato accompagnato da una pari fortuna presso i critici ufficiali e meno che mai presso gli specialisti accademici. Ladislao Mittner, ad esempio, nella sua pur monumentale Storia della letteratura tedesca lo sbriga in appena due paragrafi, contro i tredici dedicati a Thomas Mann, i dieci di Kafka o i quattordici di Brecht. Nel 1981 il Goethe-Institut di Torino organizzò un convegno su “Hermann Hesse – Opera e impronta”. Cesare Cases affermò che «nessuno degli immoralisti [gli scrittori seguaci di Nietzsche e di Dostoevskij] avrebbe mai potuto scrivere, neanche a farlo apposta, un'opera così kitsch come Narciso e Boccadoro ». A quanto diceva l'indologo Oscar Botto, «in Siddharta l'India si rivela a tratti solo un pretesto: per riflessioni critiche sulla sua spiritualità che si basano su letture frettolose e non meditate, per un messaggio di tranquillo edonismo, rassegnato e disincantato, che pareva a Hesse la quintessenza della saggezza». Né di mano più leggera fu Italo Alighiero Chiusano, definendo Hesse «un profeta facile», «un frullatore, che riduce tutto a una bella pappa cremosa», e la pagina dello scrittore, spesso, «un'argentea ragnatela di banalità».

Così come, in un convegno commemorativo del trentesimo anniversario della morte, tenutosi a Milano nel 1992, “I volti di Hermann Hesse”, su iniziativa della Fondazione Mondadori, una parte dei relatori – soprattutto quelli accademici – definì Hesse uno scrittore buono per adolescenti inesperti o un provinciale chiuso e un po' retrivo, mentre soltanto i non-germanisti di professione ne hanno positivamente valutato le ascendenze junghiane, la mimesi fra trama ed espressione ed il sincretismo culturale.

Che dire? Già Cases, nella prefazione agli Atti del convegno torinese dell'81, si domandava: «Dobbiamo diffidare di Hesse solo perché se ne cibano migliaia o milioni di adolescenti?» E aggiungeva: «Si racconta che Thomas Mann, tanto corrivo in pubblico quanto feroce in privato, chiedesse al primo giovane tedesco che era venuto a trovarlo a Zurigo dopo la guerra che cosa leggevano i tedeschi, e alla risposta “Hermann Hesse” reagisse sentenziando: “E' naturale, perché Hesse è uno scrittore per adolescenti e i tedeschi sono un popolo che non ha mai superato lo stadio della pubertà”. Ma poi milioni, non solo di tedeschi, hanno sentito che diventare adulti era un guaio e hanno riscoperto Hesse. La sentenza si è ritorta contro Mann, che pochi ormai si sentono abbastanza adulti da poter leggere».

Ecco, a parte l'acrimonia di Thomas Mann e l'ironia di Cases, qui può forse trovarsi una chiave di lettura del successo di Hermann Hesse, che non a caso si registra soprattutto presso il pubblico dei giovani, all'angosciata ricerca di se stessi, ed in parte presso quello degli anziani, disposti a guardare indietro con sereno distacco ai problemi dell'esistenza; mentre, per lo più, gli adulti maturi, nel bel mezzo delle gratificanti o frustranti competizioni carrieristiche, considerano Hesse o troppo semplicistico o troppo astratto.

Innanzi tutto uno “scrittore per adolescenti” dunque, ma non come Edmondo De Amicis o Emilio Salgari, Ferenc Molnár o Jules Verne, i quali sapevano, magari un po' a freddo, confezionare letture adatte a quell'età critica; bensì “scrittore per adolescenti” proprio perché egli stesso si pose sempre nei confronti della vita e della realtà con lo stesso atteggiamento dell'adolescente, che qui non va inteso come “essere immaturo” o “ingenuo”, ma nel senso di persona disponibile al nuovo, ribelle, anticonformista, individualista, che è ancora e sempre in una fase di ricerca e di sviluppo. Spesso è l'adolescenza stessa il tema principale delle opere di Hesse. Ha scritto Karin Struck: «Credo che Hesse sappia sui bambini e sugli adolescenti più di qualunque pediatra, psicologo e sessuologo. Egli descrive quel tempo della giovinezza durante il quale vengono azionati gli scambi o verso una vita di conformismo, di ignavia e di determinazione da parte di altri, o verso un'esistenza propria». Anche quando hanno ormai lasciato da tempo la pubertà però – come lo Harry Haller de Il lupo della steppa o lo Josef Knecht de Il gioco delle perle di vetro – i personaggi di Hesse, intransigenti e ostinatamente conseguenti al pari del loro autore, mettono sempre in discussione gli ambigui compromessi, le convenzioni tramandate e le accomodanti certezze della maggioranza. Scriveva infatti lo stesso Hesse in una delle lettere del suo sterminato epistolario: «Non esiste altra via per lo sviluppo e l'attuazione che l'interpretazione, quanto più possibile perfetta, del proprio essere … Dato che tale strada è resa difficile da molti ostacoli, sia morali che di altro genere, e dato che il mondo ci vede più volentieri standardizzati, uniformati e deboli, che non caratterizzati da una forte personalità, – chiunque si differenzia dalla media, non può fare a meno di affrontare una dura lotta per la vita … Chiunque crede di poter non tenere conto delle convenzioni e delle esigenze della famiglia, dello stato e della comunità, deve essere pienamente consapevole che lo fa a proprio rischio». Ce n'è abbastanza perché ogni adolescente, scontrosamente in cerca della propria identità e risolutamente in rotta con il mondo dei genitori, degli insegnanti e degli adulti in genere, si senta anch'egli un “lupo della steppa”, si identifichi, cioè, con gli eroi hessiani di quella coerenza un po' fanatica tipica della migliore “età ingrata”.

Coincide con una tipica attitudine dell'adolescenza anche un altro tratto caratteristico di tanta narrativa di Hesse: la tendenza a raffigurare la realtà in maniera un po' schematica, in un bianco e nero dai contrasti alquanto rigidi. Narciso è tutto astrazione ascetica e contemplativa, Boccadoro invece è soltanto empiria sensuale e creativa; le due nature, lupina ed umana, di Harry Haller non riescono a trovare alcuna conciliazione; Emil Sinclair non ha che dubbi e contraddizioni, il suo amico Max Demian invece è la quintessenza dell'equilibrio e della sicurezza.

Se a ciò si aggiunge che molto spesso, dopo tante antitesi e comparazioni fra bianco e nero, spirito e corpo, principio paterno e principio materno, superego ed es, sul finale del libro la terapia proposta, talvolta proprio alla lettera, non consiste che nelle note e collaudate massime: “Conosci te stesso!” (i sette Sapienti) e “Diventa ciò che sei!” (Nietzsche), si può forse in qualche modo comprendere quel certo malanimo dei germanisti di cui si diceva prima.

C'è però che Hesse stesso era pienamente convinto di questo suo modo di far letteratura: «Non è arte», scrisse una volta, «voler essere originali a costo della comprensibilità e della forma chiara ed inequivocabile». Ed in uno dei suoi saggi letterari, quasi a prender posizione sulle critiche presenti e future che i sacerdoti e gli accoliti della narratologia e dell'ermeneutica muovevano ed avrebbero mosso alle sue opere, affermò: «La bramosia di venire a capo dell'arte e della poesia mediante analisi critica ha ridotto notevolmente la capacità elementare di sapersi abbandonare, di saper guardare e di saper ascoltare. Interpretare è un gioco dell'intelletto, un divertimento spesso, assai bello, che si addice a persone sagaci, che non hanno familiarità con l'arte, ma che possono leggere e scrivere libri sulla plastica dei negri o sulla musica dodecafonica, ma non trovano l'accesso all'intimo di un'opera d'arte, perché si fermano davanti alla porta, tentano di aprirla con cento chiavi e non si accorgono che è aperta».

Forse dunque è poco appropriato e, per così dire, inopportuno voler mettere a confronto Hermann Hesse con Thomas Mann, Robert Musil, Franz Kafka o Hermann Broch, traendone facili ed ovvie conclusioni negative per l'autore de Il lupo della steppa. Intere generazioni di lettori, neanche poi tanto alla ricerca di banali evasioni, hanno dato a Hesse la soddisfazione di «sapersi abbandonare» alla sua narrativa in barba all'ostracismo della critica ufficiale, e tanto può bastare.

L'importanza di Hesse – e sicuramente uno dei motivi principali del suo duraturo successo – va semmai ricercata nella sua straordinaria capacità di intuire, già ai suoi tempi, e di formulare con la consueta chiarezza alcune delle problematiche di fondo che avrebbero assillato e continuano ad assillare l'umanità “civilizzata” fino ai giorni nostri. Basti, a mo' d'esempio, questo passaggio da uno dei suoi saggi: «Sono in fondo solo le cosiddette invenzioni “utili” quelle alle quali sono contrario e di cui io diffido. In siffatte conquiste tecniche e scientifiche, che si pretende così vantaggiose, è sempre presente un sedimento, una feccia maledetta. Esse si rivelano, infatti, tutte meschine, poco magnanime e di breve respiro, mettono rapidamente in mostra la vanità o la cupidigia che le ha mosse e lasciano dietro di sé – queste così utili manifestazioni culturali –, ovunque, un lungo strascico di sudiceria, di guerre, di morte e di nascosta miseria. Dietro la facciata della civilizzazione, la terra è piena di montagne di scorie e di rifiuti». Se non si sapesse che è Hesse a scrivere, la citazione potrebbe sembrar presa dal documento di uno dei tanti movimenti “verdi” o ambientalisti, che restano l'estremo impegno politico di tante masse di giovani in Europa e in America.

© Mario Rubino

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