Flavio Santi: "L'eterna notte dei Bosconero"
di Salvatore Ferlita

Era l'ora che qualcuno mettesse definitivamente una pietra sopra la Sicilia assolata, ospitale, intesa alla stregua di un paradiso terrestre: quella dell'immaginario collettivo, teatro convenzionale di storie fin troppo stereotipate. Mandando al diavolo luoghi comuni, smascherando mitologie apocrife e inventandosi una sorta di anticanone siciliano. Ci ha pensato il giovane Flavio Santi (Alessandria, 1973), col romanzo appena uscito intitolato “L'eterna notte dei Bosconero” (Rizzoli, pagine 274, 16 euro). Che si apre con un geniale escamotage romanzesco, di matrice strettamente manzoniana: ossia il ritrovamento, fittizio s'intende, delle pagine che Johann Wolfgang Goethe stralciò dal suo arcinoto “Viaggio in Italia”, del capitolo secretato dal suo autore e andato a finire, per una rocambolesca serie di eventi, dapprima tra le mani di Joseph Goebbels, il sanguinario ministro della Propaganda nazista, e poi in mezzo ai libri rari del banchiere zurighese Rufus Argevic.

Una volta recuperato e offerto ai lettori, come si legge nella nota introduttiva, il grosso quaderno di Goethe, la cui copertina recita “Diario. Ultimi giorni. Confessioni”, non solo potrebbe cambiare la storia della letteratura tedesca (e vi pare poco?), quanto l'intera storia dell'umanità, offrendo l'opportunità di conoscere la più indicibile, inenarrabile delle verità. “Weimar, 16 marzo 1832. Che Dio mi dia la forza di portare a termine quanto sto per fare!”. E di forza ce ne vuole proprio tanta, dal momento che le vicende narrate da Goethe hanno come oggetto niente meno che il terribile patto con il principe dei diavoli, Mefistofele.


Nulla di inventato, dunque, nel “Faust”, ma tutto quanto vero, sperimentato in prima persona dal suo autore, durante il primo viaggio da questi effettuato in Italia nel 1787: “La mano trema, mi sembra di sentire dei passi avvicinarsi alla porta della stanza, il vento scuote le finestre come ali impazzite, la fiamma della candela agonizza davanti ai miei occhi”.

Flavio Santi sa bene come creare l'attesa, come dar corpo alla giusta atmosfera. Guardando, da un lato, a Edgar Allan Poe, e dall'altro, al maestro per eccellenza del romanesco puro: Stevenson. “L'eterna notte dei Bosconero”, pare almeno di capire, deve qualcosa ai racconti del mistero e del terrore del primo, e al “Diavolo in bottiglia” del secondo. Uno dei protagonisti della storia narrata, Federico, appartenente alla genia maledetta dei Bosconero, affetto da narcolessia, una forma di catalessi, sembra proprio uscito da uno dei racconti di Poe. Ma procediamo con ordine: una volta messo piede a Palermo, il 2 aprile 1787, Goethe, dopo aver preso stanza presso la locanda di Madame de Montaigne, nei pressi del Porto, decide di recarsi alla famosa osteria di Zè Sciaveria, situata oltre la Tonnarazza e il Ponte di Sant'Erasmo, in contrada Romagnolo, di fronte al monte Pellegrino. Dove, a un certo punto, alla domanda da lui stesso posta riguardo allo stemma baronale siciliano più spaventoso, un misterioso avventore, non aspettando altro, gli risponde: “La selva nera”.

Da quella scintilla, viene fuori un vero e proprio cortocircuito narrativo: Goethe si dimostra subito incuriosito, il frequentatore della locanda ha una voglia matta di narrare vicende che riguardano il casato dei Bosconero, i cui componenti sono “corvi, rami svettanti, carichi di foglie”. “Se avete tempo – chiede all'autore di “I dolori del giovane Werther” l'avventore – tengo una lunga storia su questa selva nera”. Storia che Goethe non vede l'ora di farsi raccontare. E così comincia a dipanarsi un racconto che prende le mosse dalle prime notizie sul conto di uno dei discendenti della schiatta in questione, Lucifero ( nomen omen ), padre di Adamo e Federico. Delle sue tenute, tra Ravanusa, Grammichele, Pietraperzia e Pergusa, e del suo palazzo in città, in piazza Bologna (sic). Del precettore dei suoi due figli, Blasco Telamonio, scolopio del Collegio di San Rocco di Palermo. Il racconto dell'avventore, che allaccia eventi con l'abilità del narratore navigato, prende subito l'abbrivio in direzione del mistero, del fantastico, aprendo a un certo punto squarci inquietanti, mefistofelici. Che riguardano, ad esempio, i due figli di Federico, Adamo e Federico. Il primo, folle e parricida, rinchiuso nel manicomio di Ragusa. Il secondo, come s'è detto, affetto da narcolessia, ossia condannato a vivere in bilico continuo tra il mondo dei vivi e quello delle ombre. “Tutto cominciò con una nevicata miracolosa, nel 1785, intorno alle undici di sera, dalle parti di Ravanusa”.

Comincia a prendere corpo, nel romanzo di Santi, una Sicilia nera, teatro di presagi sinistri, di sortilegi infernali, di possessioni demoniache, di omicidi efferati: corpi senza testa, teste senza corpi, busti segati, corpi appesi. Una Sicilia in cui il sole sembra esser stato messo definitivamente in scacco dalle tenebre. C'è una frase, pronunciata dal precettore Telamonio, che attraversa di continuo le pagine del romanzo, e che rimbomba nella testa di Federico: “La vita vive nel sangue…”. E nel sangue si immergono le parole dell'avventore: quello sparso nelle campagne di Ravanusa o di Riesi. “All'inizio sembrava come un verme che sbuca dal terriccio e solleva il capo alla scoperta di un mondo a lui nuovo. Esita. Ma poi di strisciata in strisciata diventa sempre più grosso e dannoso”. C'è, a Palermo, chi chiama questo sangue versato, che attraversa e sconvolge le contrade isolane, “segno profondo”; chi “potentato del male”. Di conseguenza, monte Pellegrino, il Cassaro, piazza Marina vengono ricoperti da una sorta di vischiosa ragnatela immonda, sorvolati da una piovra gigante (nessuna allusione alla mafia, s'intende), presenza minacciosa e infernale.

Romanzo storico e insieme visionario, thriller mozzafiato e racconto dell'orrore, “L'eterna notte dei Bosconero” è anche un libro combinatorio, in cui citazioni tratte da Scipio di Castro (“I siciliani sono temerari e timidi: temerari quando trattano degli affari altrui, timidi quando affrontano le proprie faccende”), riscritture di Tomasi di Lampedusa, di Bufalino (“Ecco cos'è il vostro mondo: la fantasia perversa di un orco, il sogno di Satana, lo spettacolo messo su da un gruppo di diavoli!”), danno forma a una miscela linguistica effervescente e a un impasto tematico dal forte e sorprendente taglio civile. Tanto da fare di questo romanzo gotico una sorta di inatteso e straniante apologo: quello su una Sicilia porta dell'inferno, abisso demoniaco. Metafora dolorosa dell'Italia dei nostri giorni.

© Salvatore Ferlita

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