EZIO D'ERRICO: TENTATIVO DI AUTOBIOGRAFIA
(da: "Parabole" 1937
)

Invidio coloro che hanno saputo raccontare la propria vita come fosse la vita di un altro.
Evidentemente questi uomini felici avevano l'abitudine di tenere dei diarii, oppure il loro cervello era fatto come uno schedario. Durante anni ed anni, fatti, pensieri, avvenimenti, si sono forse automaticamente incasellati, e il loro cervello con la precisione di una macchina registratrice ha tirato le somme.
Poi un bel giorno il proprietario di quel cervello perfetto ha preso la penna in mano e si è messo a scrivere tranquillo:
«Sono nato a.... il tale giorno del tale anno.... i miei genitori erano questo e quest'altro.... i miei primi giuochi furono così e cosi, la mia balia aveva un neo sulla guancia destra, ecc. ecc. ».

Bella cosa.... e come li invidio!
Se penso alla mia vita, vedo una valanga di fantasmi che rotola lenta su un piano inclinato.
Ci sono degli avvenimenti lontani che mi si presentano nitidi alla memoria come se si fossero realizzati ieri, ci sono dei fatti vicinissimi dei quali non serbo nessun ricordo, e quando altri me li cita, stento a credere che siano capitati a me.
Un'altra cosa che non capisco, è come si faccia a vedersi bambini. Se prendo un album di fotografie che ho in un cassetto, vedo dei bambini, dei ragazzi, dei giovanetti, che mi rassomigliano vagamente. Tutti dicono che sono io.
La cosa è verosimile, ma non riesco a percepirla.
In realtà quelle immagini mi sembrano degli estranei, o tutt'al più dei lontani parenti.
Se quelli ero io, è troppo evidente che sono morto tante volte quanti sono loro.

Un'altra cosa molto difficile è la nozione del tempo trascorso. Perchè io ho tanti anni, non uno di più, non uno di meno? Chi lo dice? In base a quali calcoli si può dimostrare? Lasciamo andare la fede di nascita che è una convenzione amministrativa. Di positivo e di reale non c'è che il corpo, questo mio corpo che conosco, e che anno per anno si va appesantendo, coprendo di rughe, scolorando nei capelli, questo stupido corpo che non capisce che io sono sempre io, e cerca di farmi apparire diverso ai miei occhi.

Ma ritorniamo alla mia vita, giusto in tempo per constatare che non è più mia di quel che non sia d'altri.
Perchè mia vita? Perchè questo aggettivo possessivo presuntuoso e arbitrario?
Tanto è vero che non è mia, che se voglio ricostruirne anche solo una parte, mi tocca andarla a prendere a pezzi e a bocconi un po' dappertutto in giro per il mondo, e c'è gente che chissà dove è andata a finire e ne ha dei frammenti in tasca, cosi come io porto con me frammenti della vita loro.
Bisognerebbe barattarli a prezzo di discussioni antipatiche.

Vado per la strada di notte, e da un balcone mi giunge il motivo di una vecchia canzonetta che qualcuno strimpella con un dito sul pianoforte.
Quella canzonetta fa apparire in mezzo alla strada un periodo della mia vita che avevo totalmente dimenticato. Debbo quindi concludere che ci sono delle zone di vita che esistono solo in quanto possono essere innestati sul motivo di una canzone, come un vestito esiste in quanto c' è un manichino sul quale infilarlo, se no si riduce a uno straccio afflosciato per terra, una macchia di colore sul tono del pavimento.
Ci sono periodi della vita riproducibili sol che si voglia ritornare in un dato luogo e riprendere una vecchia abitudine, ma per altri periodi ciò non è possibile, perchè essi sono indissolubilmente legati a persone scomparse, e come non è possibile risuscitare quelle persone, così non è possibile risuscitare quella zona di vita.

Quando si tratta di consanguinei, ne giunge talvolta l'eco attraverso il suono delle nostre parole, attraverso il timbro della nostra voce.
Oh lo spavento di udir la voce di mia madre in certe mie frasi, spavento dolce di sentirsi violentemente proiettati all'indietro verso una vita che non esiste più. Cerco di ripetere la frase e resto in ascolto.... ma non è più la stessa cosa.
Se lo voglio non è più quello.... è un artificio stupido e doloroso come una lettera d'amore scritta a se stessi.
L'unica cosa possibile è quella di raccontare gli avvenimenti ai quali abbiamo assistito o dei quali siamo stati attori.
È un riflesso della nostra vita, non è tuttavia la nostra vita. Anche se volessi far questo, urterei in difficoltà tutt'altro che lievi: Si fa presto a dire racconta quello che hai visto.... a prescindere dalla lue letteraria che infetta fatalmente il racconto del più modesto scriba, c'è poi la difficoltà di vedere noi stessi dentro gli avvenimenti, mentre in realtà noi non ci siamo mai visti. Abbiamo visto gli altri, e ripensando a noi, dobbiamo specchiarci in questi altri, perchè non abbiamo altro termine di paragone per rivederci.

Poi c' è la faccenda dell'importanza dei fatti.
Tutti coloro che hanno raccontato la loro vita, hanno dovuto evidentemente falsare l'ordine d'importanza dei fatti. In altre parole hanno costruito una scala, in base a una logica che coincideva quasi sempre con una retorica.
So benissimo per esempio che la guerra mondiale alla quale ho preso parte, dovrebbe costituire nella mia vita uno degli avvenimenti più importanti, ma che colpa ne ho io, se fra i ricordi essa occupa un posto grigio e incolore? Quando è scoppiata la guerra, avevo poco più di venti anni, e forse a quell'età gli avvenimenti scivolavano sulla mia gioventù felicemente animalesca, come le gocce d'acqua sulle penne dell'anitra.
Salvo qualche episodio un po' teatrale, tutto il resto della guerra si perde in un'unica massa opaca, costituita da un seguito di arrivi e di partenze.
Invece, avvenimenti di un'importanza storica assolutamente nulla, brillano nei miei ricordi con una precisione formidabile.
Ci sono delle battute banalissime, delle fisonomie insignificanti, dei paesaggi assolutamente privi di ogni attrattiva, che sono rimasti incisi nella mia mente come i tratti dell'acquaforte in una lastra di rame. Ci ò significa che quelle battute, quelle fisonomie, quei paesaggi, sono stati a mia insaputa capisaldi importantissimi per il mio destino.
Forse essi erano nel libro della sorte, come quelle cartelle di appunti che i conferenzieri tengono sott'occhio per non perdere il filo...chi li leggesse, così isolate, le troverebbe insignificanti e banali.
Tuttavia l'intera orazione s'incardina su quelle poche frasi.

Quando leggo un'autobiografìa, due cose sopra ogni altra mi colpiscono.
Lo sforzo che l'autore fa per non apparire immodesto. Basta questo sforzo per comprendere che egli sa di recitare davanti alla platea dei posteri.
D'altro canto, se parla degli uomini illustri che ha conosciuto, non può fare a meno di ingrandirli e di renderli pittoreschi. Una bizzarra vanità scaturisce da questa ricerca di episodi insignificanti, atti a mettere in valore i rapporti di amicizia, di confidenza, o anche di semplice simpatia, che lo hanno legato a uomini che « sono stati qualcuno ».
Anch'io ho conosciuto uomini che «sono stati qualcuno» (non è poi una cosa tanto difficile) ma tutta la mia ammirazione va a quelli che non ho conosciuto. Essi solo sono rimasti intatti nella loro grandezza mitica, che la vicenda quotidiana non ha potuto sminuire, essi solo quindi, hanno avuto una parte preponderante nella mia vita.... i grandi uomini che non ho mai conosciuto, hanno comunicato col mio spirito attraverso i loro libri, le loro musiche, i loro quadri, le loro statue, ossia coi mezzi più potenti di trasmissione di cui disponevano.
Al confronto mi sembra che non abbiano alcun interesse le frasi cortesi scambiate col celebre poeta che ha avuto la bontà di invitarmi un giorno a colazione, o le chiacchiere fatte in treno con l'eminente scienziato presentatomi da persona amica.

Lo so che i lettori si lanciano avidamente sui più modesti episodi che riguardano la vita dei grandi uomini, ma tutto questo non c'entra con la mia vita, con quella nuvola enorme, impasto di fantasmi e di urla, di musiche e di pianti, di amori e di errori che è stata la mia vita.... voglio dire la vita di tutti.
La vita del più modesto degli uomini, è sempre una cosa altamente drammatica e interessante. Oso dire, che dal punto di vista dell'interesse e della drammaticità, non ci sono differenze tra la vita di Casanova e quella di un impiegato al Catasto, fra la vita di Giulio Cesare e quella di una maestrina rurale.
L'unica differenza sta in questo, che la vita di Casanova o di Giulio Cesare sono più facili da raccontare, sono dei drammi con effettacci immediati, fatti apposta per ottenere quello che in gergo teatrale si dice una « carrettella » di applausi.
Con l'aggravante che gli amori di Casanova e le guerre di Cesare, bisogna far lo sforzo di riferirle ai tempi, ossia di metterle in prospettiva, se no qualche volta non è facile restar seri.
Questo era necessario che io premettessi prima di incominciare, affinchè fossero ben chiare le finalità che mi hanno mosso (1) .

(1) Il libro non l'ho mai scritto e mai lo scriverò. Rileggendo questa prefazione mi è sembrato che essa sia già di per se stessa un'autobiografia, e che il farla seguire da una serie di capitoli con la narrazione cronologica delle tappe della mia vita, sarebbe superfluo.
Molti libri dovrebbero fermarsi alla prefazione e ce ne sarebbe d'avanzo. Credo che la storia della mia vita sia fra questi.